La psicoterapia dalla prima alla terza ondata: criticità e cambiamenti nei paradigmi teorici e nelle applicazioni cliniche, con una proposta di conciliazione con il modello cognitivo evoluzionista (di Alessandra Salvini)

Cosa è successo nella storia del cognitivismo clinico italiano fino ad oggi? Propongo, con questa breve rassegna, una ricostruzione sintetica che ha l’intento di mettere in evidenza le “crisi” teoriche e i punti di svolta che hanno caratterizzato le fasi di passaggio attraverso quelle che sono state connotate come le tre ondate della psicoterapia.

Che cosa distingue la prima, la seconda e la terza onda della terapia cognitivo-comportamentale rispetto al modello teorico e alla pratica clinica?

La prima onda può essere identificata con la terapia comportamentista, un modello che nasce negli anni ’50 come reazione ad approcci basati su ipotesi non verificabili poichè non sottoposte a sperimentazione. L’idea di base è che le persone apprendono dei comportamenti disfunzionali a causa dei loro rinforzi. Basandosi su questo presupposto, quindi, possono essere appresi anche nuovi comportamenti funzionali. Le tecniche fondamentali diventano: l’esposizione volontaria, graduale e sistematizzata alle situazioni temute e l’analisi funzionale, cioè l’esplorazione dei meccanismi di rinforzo dei comportamenti disfunzionali. Ad esempio se un paziente ha paura di prendere l’aereo, in terapia viene esplorato come il senso di sollievo sperimentato di fronte alla rinuncia di volare, funga da rinforzo. L’utilizzo, poi, della tecnica dell’esposizione porta il paziente ad esporsi al comportamento temuto, che in questo esempio è il prendere l’aereo, e di conseguenza alla progressiva desensibilizzazione alla reazione di paura.

La seconda ondata nasce dal limite dell’approccio comportamentista, che trascurava l’influenza degli aspetti cognitivi che entravano a far parte della terapia e che erano già contenuti nel necessario metodo di persuasione ad affrontare l’esposizione. Da qui nasce un nuovo modello, quello cognitivo-comportamentale, in cui l’oggetto di studio diventano gli stati e i processi mentali che orientano il comportamento delle persone. Quest’ultimo è influenzato cioè dall’interpretazione soggettiva della realtà, dal mondo cognitivo (pensieri, emozioni, credenze, convinzioni, immagini, processi di attribuzione personali sui dati di realtà ed effetti). Qui il focus di intervento diventa, di conseguenza, il cambiamento delle valutazioni e delle convinzioni disfunzionali (convinzioni non utili in funzione di quelli che sono gli scopi di chi agisce) che alterano la percezione della realtà. Il cambiamento delle convinzioni disfunzionali avviene attraverso la messa in discussione dei contenuti cognitivi, che ha come obiettivo terapeutico la ristrutturazione cognitiva.

L’approccio cognitivo-comportamentale è quello che fino ad oggi riceve maggiore consenso nella comunità scientifica per gli evidenti risultati empirici e clinici ottenuti. Va da sé che quando parliamo di terapia cognitiva, facciamo riferimento ad un metodo terapeutico non omogeneo, all’interno del quale si distinguono approcci diversi. Ciò che li accomuna tutti, è l’enfasi sulle strutture di significato e sui processi di elaborazione dell’informazione e, dunque, il riconoscimento della variabile cognitiva come predominante nella spiegazione dei fenomeni clinici. Inoltre, il metodo di trattamento prevede sempre, indipendentemente dalle differenze nelle procedure, la manipolazione della variabile cognitiva come strumento principe di cambiamento.

I limiti con cui l’approccio cognitivo-comportamentale si è trovato a fare i conti sono due: 1) come è possibile che nascano dei problemi emotivi, dei sintomi, che non derivino da esperienze dirette? (es.: come si fa ad aver paura di prendere l’aereo, se non ho mai fatto l’esperienza di prenderlo?); 2) come è possibile che permangano i sintomi nonostante l’apparente successo di una ristrutturazione cognitiva? (es.: nonostante arrivo a capire che i sintomi di un attacco di panico non coincidono con il fatto di stare per avere un infarto e di stare sul punto di morire, ogni volta che li sperimento continuo ad avere lo stesso timore di stare per morire).

È da questo limite che arriviamo alla terza ondata o terapia cognitivo-comportamentale di terza generazione, che risponde al primo problema relativo alla nascita dei problemi emotivi in assenza di un’esperienza diretta, facendo riferimento alla Rational Frame Theory, una teoria del linguaggio e della cognizione, secondo la quale i pensieri finiscono per acquisire un significato letterale, così come molto del loro impatto su emozioni e comportamenti, solo perché si è venuto a stabilire nel tempo una relazione arbitraria tra eventi. Ad esempio non è necessario che io abbia avuto un’esperienza traumatica in una galleria per sviluppare la paura delle gallerie. Posso, infatti, aver trasformato il significato delle gallerie, dopo averle collegate semanticamente con la mia paura di non avere vie di fuga. Al secondo problema, relativo alla permanenza dei sintomi nonostante l’operazione di ristrutturazione cognitiva, la terapia di terza generazione risponde postulando la permanenza di un aspetto semantico indipendentemente dal ragionamento realistico. Per seguire l’esempio fatto in precedenza, posso comprendere a livello cognitivo che in galleria non corro alcun pericolo, ma il significato emotivo della galleria continua a sussistere nonostante la comprensione razionale. Gli interventi della terza onda che possono essere proposti in questi casi sono:

  • oltre ad un lavoro con il metodo dell’EMDR (che attraverso la stimolazione alternata dei due emisferi cerebrali, porta ad una rielaborazione dei contenuti sia emotivi che cognitivi in direzione di una soluzione adattiva),
  • un lavoro di defusione, che rappresenta un’alternativa alla messa in discussione dei contenuti di pensiero. Essa è utile alla gestione degli aspetti normativi e delle regole auto-generate autonomamente che sono rappresentate da pensieri che portano a comportamenti maladattivi (Es: se andrò a quella festa non parlerò con nessuno e mi prenderanno per un cretino, quindi eviterò di andarci). Attraverso la pratica della defusione, i pensieri dolorosi e spiacevoli perderanno la capacità di spaventare, disturbare, preoccupare, stressare o deprimere. Di conseguenza, il contenuto cognitivo non sarà più un determinante del comportamento. In altre parole parliamo della messa in atto del decentramento attraverso un sé osservante, un aspetto potente della mente, che fino ad oggi è stato ampiamente ignorato dalla psicologia occidentale. Il sé osservante permette di fare esperienza di quello che è la capacità metacognitiva di decentramento.
  • un altro aspetto delle terapie di terza generazione è la sistematizzazione del concetto di accettazione, un concetto che non è nuovo né all’interno della psicoterapia, né all’interno della cultura filosofica antica (lo stoicismo, Epitteto, Seneca). Accettazione significa disponibilità ad esperire ciò che si sta sperimentando pienamente e senza difese. Non significa desiderare o farsi piacere per forza le esperienze private sgradevoli (emozioni, pensieri, immagini mentali negative) e la propria situazione di vita. Le abilità di accettazione della realtà permettono di accettare la vita per quello che è in un determinato momento e di affrontare le situazioni dolorose che non possono essere modificate nell’immediato, tollerando gli stati emotivi sgradevoli che nella vita sono inevitabili. La vita infatti comprende anche il dolore e non c’è modo di evitarlo. È necessario prendere atto che in quanto esseri umani, tutti noi, prima o poi, dovremo affrontare crisi, delusioni, insuccessi, perderemo relazioni importanti a causa di rifiuti, separazioni o lutti, diventeremo più deboli, ci ammaleremo, moriremo. La possibilità di superare in modo efficace questi momenti, non può essere l’utilizzo massiccio delle strategie di evitamento del dolore, ma la capacità di tollerare le situazioni dolorose, continuando a fare piccoli passi all’interno della condizione di sofferenza e mantenere un atteggiamento funzionale, o comportamento orientato ai propri valori (a seconda che si voglia utilizzare un linguaggio DBT o un linguaggio ACT) piuttosto che ricorrere a comportamenti che potrebbero peggiorare la situazione.
  • l’accettazione è facilitata dalla mindfulness, che può essere tradotta come focalizzare la mente su qualcosa (es.: il respiro), essere consapevoli, osservare ciò che sta accadendo (es.: il fatto di essere stanchi) senza allontanare l’emozione o l’esperienza dalla mente e senza giudicare. Ciò comporta il poter osservare e descrivere ciò che sta avvenendo senza attribuzioni e osservando con distanza i pensieri e le emozioni. In quest’ottica, nella terza onda della psicoterapia, la validazione emotiva si pone tra la logica occidentale del comprendere, cioè del contenuto del pensiero e la nuova attitudine orientale dell’accettare senza giudicare.
  • la consapevolezza, facilitata dalla dalla mindfulness, permette di orientare la mente alla decisione più efficace su come comportarsi in modo efficace, in direzione dei propri valori, in direzione cioè di quella che per ognuno di noi significa una “vita ricca, piena e significativa”: chiariamo cosa è importante per noi nella vita e ci comportiamo di conseguenza, con la consapevolezza che una vita di questo tipo ci farà provare l’intera gamma delle emozioni umane, ci darà cioè molte sensazioni piacevoli e ce ne darà anche di spiacevoli, come tristezza, paura, e rabbia.

La psicoterapia cognitivo comportamentale di terza generazione, in sintesi, non modifica l’obiettivo terapeutico della ristrutturazione cognitiva, ma cambia la strada per raggiungerla: abbandona cioè la messa in discussione dei contenuti a vantaggio dell’utilizzo di un sé osservante e non giudicante, di un’accettazione inevitabile di tutta la gamma emozionale delle esperienze di vita, della loro tolleranza e della messa in atto, lì dove possibile, di comportamenti di problem solving efficaci a lungo termine. Il cambiamento a livello cognitivo e metacognitivo che si ottiene sia attraverso la pratica della stimolazione bilaterale nell’EMDR, sia attraverso queste abilità cardine di derivazione orientale, è accompagnato anche da modifiche a livello cerebrale, legate al riprocessamento delle informazioni. Ne sono testimonianza gli studi di neuroimaging.

Mi piace vedere nella terza onda della psicoterapia, una conciliazione tra la teoria cognitivo evoluzionista e i principi della filosofia orientale. All’interno di questa cornice teorica di riferimento, i bisogni primitivi dell’uomo per sopravvivere, riprodursi e appartenere ad un gruppo, ha portato la mente umana ad essere sempre più abile nel prevedere ed evitare il pericolo. Ora dopo 100.000 anni di evoluzione, la mente moderna è costantemente all’erta, impegnata a valutare e giudicare tutto ciò che incontra: è buono o cattivo? È sicuro o pericoloso? È dannoso o utile? Oggi la nostra mente non ci mette più in guardia dalle tigri o dai mammut, ma ha conservato il modo di metterci in guardia dai nuovi “nemici” attuali: perdere il lavoro, essere esclusi dal gruppo di appartenenza, non contribuire abbastanza per il gruppo e altre preoccupazioni quotidiane. La qualità complessiva, la struttura e la varietà della vita di relazione muta in maniera drastica, pur conservando tutti i “pezzi” costituenti (attaccamento, accudimento, gerarchie di potere, accoppiamento sessuale) che la lunga storia dell’evoluzione ha selezionato e conservato. Niente di nuovo quindi, se oggi le nostre menti moderne continuano a metterci in guardia rispetto ai pericoli e se dedichiamo tanto tempo a preoccuparci. Mentre 100.000 anni fa la mente umana si trovava a confrontarsi soltanto con i pochi membri del proprio clan e con la presenza di risorse limitate e poco diversificate, oggi di fronte alla complessificazione dell’evoluzione, i principi della filosofia orientale sembrano proporci quelle che attualmente appaiono modalità più adattive.

Bibliografia:
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