Covid-19: Diario autoterapeutico di una pandemia (di Fabio PRESTI)

Foto di Alexandra_Koch da Pixabay

Quando mio padre mi chiama non ci vediamo ormai da quasi due mesi, non sono riuscito a convincerlo ad utilizzare le videochiamate, lui che si rifiuta persino di usare whatsup. Dopo i saluti e i convenevoli mi comunica che un nostro cugino di New York è deceduto per Coronavirus; fatico un po’ a capire di chi si tratti, poi mi ricordo: era il figlio di uno zio che negli anni ’90 venne a farci visita di rientro dagli Stati Uniti. Il cugino aveva più o meno la mia età, mi rattristo al pensiero della sua morte ma il suo ricordo è per me qualcosa di vago, un’immagine che ora inaspettatamente si mischia a quelle agghiaccianti delle fosse comuni scavate a New York.

Chi invece è ben presente nella mia mente e nel mio cuore è un altro mio cugino di Padova, ricoverato da più di venti giorni in terapia intensiva, sempre per lo stesso maledetto virus. Altri dispiaceri che si sommano a una serie di preoccupazioni che da Marzo sembrano susseguirsi senza soluzione di continuità. Dall’inizio delle restrizioni sono cominciate ad arrivare anche le chiamate di pazienti che, avendo perso il lavoro, non riescono a proseguire la psicoterapia. Qualcuno di loro, qui a Roma, gestiva un bed and breakfast, altri lavoravano nel turismo o avevano una piccola attività che si è fermata a tempo indefinito. In molti casi sono ragioni reali e più che comprensibili, non si tratta cioè di test sulla relazione ma semplicemente a volte “prima viene la vita e poi la psicoterapia” come era solito dire un mio Maestro.

Con qualcuno troviamo altre modalità per vederci (online e diluendo gli incontri) ma in diversi casi non è possibile e questo mi dispiace, perché – in un momento così difficile – viene meno anche il sostegno della terapia. Contemporaneamente anche il mio lavoro riceve una battuta di arresto, ed è la prima volta che capita nella mia esperienza professionale. Penso che se applicassi a me stesso il “Protocollo Eventi Recenti” con cui in EMDR trattiamo il trauma acuto, questi ricordi sarebbero tutti “punti di disturbo” di cui prendersi cura. Eh già, perché diversamente dalle altre emergenze in cui ci siamo attivati (penso ad esempio al terremoto di Amatrice), in questa situazione gli stessi terapeuti sono a vari livelli, “traumatizzati”.

Esistono infatti diversi gradi di possibile traumatizzazione che non riguardano soltanto l’essere direttamente coinvolti in un’emergenza ma anche, ad esempio, temere per le sorti della propria comunità, per l’incolumità dei propri cari, fino allo stress di un potenziale contagio che non si può mai escludere in una pandemia. Con i colleghi del Centro Clinico De Sanctis ci siamo messi da subito in movimento, attivando un intervento gratuito per offrire sostegno agli operatori sanitari che in questa emergenza sono spesso, essi stessi, vittime di traumatizzazione. Nello specifico, si parla di “traumatizzazione vicaria” quella che colpisce il soccorritore lungamente esposto a situazioni di estrema sofferenza. Ma, come sappiamo, in questa emergenza diversi medici e infermieri hanno anche perso colleghi della propria equipe, sono stati contagiati, sono isolati dai loro cari e quindi condividono molti altri possibili livelli di traumatizzazione.

Nel nostro intervento terapeutico (che è anche una ricerca sulla validità dei trattamenti da remoto) utilizziamo un protocollo breve e mirato, che dà al terapeuta un certo grado di sicurezza per “mettere le mani” in situazioni di sofferenza a volte estreme. Mi chiedo però, più in generale, in che modo noi terapeuti possiamo continuare a sostenere efficacemente i nostri pazienti dal momento che probabilmente stiamo attraversando, anche noi, la nostra personale emergenza. Il mito del “guaritore ferito” è qualcosa che mi ha spesso sostenuto nella mia professione, soprattutto durante i momenti di vita più complicati.

Ricordo come anche dopo un lutto importante come quello di mia madre, mi chiedessi se e come avrei trovato le risorse per aiutare i miei pazienti. In realtà, seduta dopo seduta, mi accorgevo che la sofferenza svaniva quando ero veramente immerso nell’incontro terapeutico e che la vulnerabilità di quel particolare momento mi consentiva anzi una maggiore sintonizzazione con il dolore dei pazienti, grazie proprio a quella ferita che si trasformava in feritoia. Mentre sono immerso in queste riflessioni mi imbatto in un provvidenziale webinar di Kathy Steele in cui la terapeuta, con grande onestà intellettuale, si chiede proprio questo: come ci prendiamo cura dei pazienti se anche a noi terapeuti capita di sentirci esausti, sopraffatti o senza speranza? Come possiamo, cioè, mantenere la competenza terapeutica in questa emergenza, in cui anche gli esperti brancolano nel buio e le prospettive sono incerte per tutti?

Tra i consigli che accolgo subito c’è quello di prendersi ancora maggiormente cura di noi stessi, proprio per non sentirci sopraffatti nel gestire una possibile richiesta di maggiore sostegno da parte dei pazienti. Per me questo significa aumentare i tempi dedicati alla meditazione, al contatto con il mio corpo, a percepire un maggior radicamento nell’ambiente e, quando possibile, a cucinare qualcosa di buono. Mi colpisce una riflessione della Steele che nota come molti pazienti traumatizzati abbiano vissuto in completa solitudine le proprie esperienze più terribili, mentre in questa situazione si prospettano delle inaspettate opportunità di condivisione. Se noi terapeuti non neghiamo in maniera scissa e onnipotente le difficoltà che stiamo attraversando, se ammettiamo di non essere “al cento per cento” ma di star facendo del nostro meglio come tutti, per fronteggiare l’emergenza, diamo ai nostri pazienti un prezioso modello per accogliere senza vergogna le proprie parti più fragili e vulnerabili. In questo modo stiamo implicitamente stabilendo con loro una profonda connessione emotiva che è alla base dell’esperienza di un attaccamento sicuro. Se penso a tutto questo respiro meglio e mi sento più leggero. Mi viene in mente una frase di Frank Ostaseski che mi aveva colpito: “Non abbiate paura delle vostre ferite, dei vostri limiti, della vostra impotenza. Perché è con quel bagaglio che siete al servizio dei malati e non con le vostre presunte forze, con il vostro presunto sapere.”

Buon lavoro a tutti!

Fabio Presti
Psicologo, Psicoterapeuta corporeo e EMDR Practitioner, Centro Clinico de Sanctis, Roma

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