Film: “MANCHESTER BY THE SEA” (recensione di ANTONIO ONOFRI)

LUTTO, TRAUMA E DOLORE AFFRONTATI CON RISPETTO E AMORE
di Antonio Onofri

E’ la storia dei Chandler, una famiglia di modesti lavoratori del Massachusetts. Dopo la morte improvvisa del fratello maggiore Joe, Lee viene nominato tutore legale del nipote. Lee è ancora tormentato dal proprio tragico passato, che lo ha allontanato dalla moglie Randi e dalla comunità in cui è nato e cresciuto. Ambientato sulle coste settentrionali del Massachusetts, MANCHESTER BY THE SEA è il nuovo film scritto e diretto da Kenneth Lonergan. Casey Affleck, protagonista del film, ha vinto l’oscar come migliore attore.

Rasenta la perfezione, questo film! Per la regia, la recitazione, la fotografia, e la colonna sonora! Due ore di intimità con un dolore dirompente, straziante ma allo stesso tempo sommesso. Qualcosa che in genere solo la lettura di un libro ci regala. A me ha fatto pensare a più riprese alla scrittura asciutta e intensa di Kent Haruf. Non aspettatevi pianti e urla, non troverete nessuna aperta espressione di tutto questo. Troverete invece – e magnificamente descritti – il senso di colpa del protagonista e la sua vergogna, un sentimento che gli farà abbandonare la piccola cittadina americana della costa atlantica dove è nato e cresciuto, che lo porterà a vivere una esistenza ai margini, in un seminterrato, lontano da tutto e da tutti.

Troverete il suo desiderio di annullarsi, di scomparire, di distruggersi e annegare nell’alcol. “Strategia di coping basato sull’evitamento”, la chiamano gli psicologi. E qui la ritroverete tutta. Il protagonista non vorrebbe più pensarci, non vorrebbe parlarne, non vorrebbe ci fosse nulla che glielo ricordasse. Ma in ogni momento della sua vita quella cosa accaduta è ancora lì. Noi vediamo a più riprese le cornici con le foto delle persone che gli sono morte, ma le vediamo solo da dietro, mai i ritratti frontali. Eccezionale per capire come la reazione di evitamento sia qualcosa di automatico, globale e corporeo, il momento in cui lui è in una chiesa e viene abbracciato dalla moglie: il suo sguardo immediatamente si dirige altrove, di lato, come a voler scappare e stare da un’altra parte. La natura della costa atlantica americana accompagna tutto questo: una natura spesso osservata aldiqua di un vetro, di una finestra; una natura anch’essa lenta , diafana, quasi fosse anch’essa in stato di freezing. Un freezing interrotto solo dal vento, dalla pioggia, dalla neve, come il freezing del protagonista è spezzato dalle improvvise scazzottate che cerca la sera nei pub. Vuole farsi picchiare. Vorrebbe farsi ammazzare. Una lotta tra sistema simpatico e sistema parasimpatico senza uguali, direbbero i neurofisiologi del trauma…..

Poi, una novità irrompe nella sua vita. Un nipote sedicenne (anche lui un attore straordinario) di cui obtorto collo dovrà prendersi cura. Anche qui – ed è un pregio raro di questo film – nessuna scena melensa, nessuna lacrima, nessun sentimentalismo buonista. Tutto resta comunque asciutto, emotivamente carico sì, ma al tempo stesso asciutto, essenziale, minimale. L’evitamento, il silenzio, l’incapacità comunicativa dei protagonisti pervadono l’intera trama del film. Un film che è anche una magistrale illustrazione del maschile, del modo tipicamente maschile – o almeno di un certo maschile – di fare i conti con il tragico della vita. L’altra figura gravemente traumatizzata del film, la donna, pur spezzata dal dolore, sceglierà comunque la vita e il futuro. Ma questo è appunto un film centrato sul maschile, sulla mimica maschile, sui gesti maschili, sul corpo maschile; ci sono il mare, la barca, il baseball, il pub, i lavori manuali….e le scazzottate.

L’evitamento, dicevamo. Beh, alla fine del film, senza lieti fini, senza stucchevolezza, qualcosa succede. Quei lutti lì no, non si “superano”, non si “vincono” mai. Non si possono “elaborare” se con questo termine qualcuno intendesse che possano non fare più male. Semplicemente possono non essere più un freno, ma anzi quasi una spinta. Una spinta verso qualcuno. Un indecifrabile voglia di riavvicinarsi a qualcuno. E a un certo punto, appunto, qualcosa succede. Il protagonista ammette la propria fragilità, dice “Non ce la faccio”; e lo dice al nipote, a qualcuno tanto più giovane, proprio nel momento in cui sceglie di tutelarlo. Ecco che compare con più forza la possibilità di un futuro. Chissà, magari tra qualche anno il ragazzo sarà al college…..

Anche l’adolescente ha un lutto, anche lui non sa parlare di emozioni, ma ama terribilmente la vita, le ragazze, lo sport, la sua band rock…. Si capisce che ha avuto un padre che lo ha amato e rispettato profondamente. Lancia la palla allo zio e questo, finalmente, gliela rilancia…. Forse lo sceneggiatore e il regista hanno letto van der Kolk? Ho sperato fortemente che questo film vincesse l’Oscar. Perché è un film che parla di lutto, di trauma, di dolore, ma lo fa con profondo rispetto, delicatezza, amore.

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