L’eredità emotiva. Una terapeuta, i suoi pazienti e il retaggio del trauma. (recensione di Marta Lepore)

Galit Atlas: L’eredità emotiva. Una terapeuta, i suoi pazienti e il retaggio del trauma, Raffaello Cortina, Milano 2022, pagine 272, Euro 16.00

Una delle domande che affascina da sempre l’uomo è come diventiamo quello che siamo?.

Per rispondere a tale domanda, la ricerca in psicologia da decenni si sta impegnando nel cercare di comprendere in che modo la predisposizione genetica e le esperienze salienti della vita possano modellare il comportamento umano e lo sviluppo psicologico.

L’argomento non è nuovo, di fatto il trauma transgenerazionale o intergenerazionale è stato oggetto di studio già nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale. Diverse ricerche hanno dimostrato che le generazioni successive a quelle che vissero l’Olocausto manifestarono determinati comportamenti (incubi, problemi affettivi e di comportamento) evidenziando un trasferimento ai nipoti del trauma originario dei nonni, anche se con modalità differenti. Le generazioni successive a chi ha sofferto quel trauma originario non necessariamente svilupperanno gli stessi disturbi, ma saranno più vulnerabili di altri all’ansia, allo stress e alla depressione.

Eventi positivi o negativi, traumi o semplicemente eventi stressanti possono influenzare il comportamento umano nel tempo. L’aspetto rivoluzionario che alcuni studi stanno dimostrando riguarda la possibilità di una trasmissione transgenerazionale del trauma a livello epigenetico.

Gli effetti di un trauma potrebbero essere legati ad alterazioni dell’espressione di alcuni geni, che si perpetuano anche in assenza dell’evento che le ha generate. Al contrario della sequenza di DNA, che è per lo più statica per tutta la durata della vita, i marcatori epigenetici possono subire cambiamenti importanti nel corso dello sviluppo pur non alterando il codice genetico del DNA. L’epigenetica, dunque, ci consente di studiare e analizzare i meccanismi molecolari attraverso i quali le situazioni ambientali possono influenzare l’espressione genica senza modificare le sequenze inscritte nel DNA.

Secondo una prospettiva evoluzionistica, questo tipo di trasformazioni epigenetiche potrebbe mirare a preparare biologicamente i figli per un ambiente simile a quello sperimentato dai genitori e ad aiutarli a sopravvivere. Di fatto però, queste trasformazioni spesso li rendono più esposti alla possibilità di manifestare i sintomi di un trauma che non hanno vissuto in prima persona.

Nel nostro lavoro clinico vediamo come l’esperienza traumatica invada la psiche della seconda generazione e si manifesti in modi spesso sorprendenti.

In questo libro, l’autrice, psicoanalista nata in Israele e figlia di genitori migranti, porta avanti con i pazienti un lavoro delicato, cercando di raccogliere le reminiscenze dell’infanzia, le storie non narrate, alla ricerca di una traccia, per rispondere alla domanda che cosa è successo davvero e a chi?

L’autrice intreccia i racconti dei propri pazienti alle sue personali storie d’amore e di perdita, il suo trauma personale e quello della sua nazione, con la prospettiva psicoanalitica e la ricerca psicologica più recente.

Cerca di rispondere a quesiti importanti quali Come ereditiamo, tratteniamo ed elaboriamo vicende che non ricordiamo o che non abbiamo vissuto in prima persona? Che peso ha ciò che è presente ma non completamente conosciuto? Che cosa trasmettiamo alla generazione successiva?.

Queste e altre domande vengono esplorate nel  libro attraverso undici casi clinici, undici storie in cui abusi, lutti, abbandoni e Olocausto s’incarnano nelle vite delle generazioni successive come un materiale indigesto che, proprio perché non elaborato, viene tramandato ai nuovi arrivati.

Nel libro vengono descritti i molti volti del trauma ereditato, il suo impatto, e come andare oltre.

Nella prima parte la terapeuta ci parla della “radioattività del trauma”; riferendosi al trauma dell’Olocausto, la scrittrice (ebrea che vive a New York) riferisce che è sorprendente notare quanti dei suoi pazienti oggi a New York siano discendenti di seconda o terza generazione dei sopravvissuti all’Olocausto. Persone altamente funzionanti, produttive, di successo, che hanno tutte qualcosa in comune: i fantasmi della persecuzione, che si presentano in maniera imprevedibile in momenti inaspettati,  persone che sotto la superficie portano il trauma e la colpa dei sopravvissuti. La Atlas scopre che, sin dall’infanzia, immagini e sogni dell’Olocausto visitano spesso le menti di questi pazienti, anzi soprattutto di quelli i cui genitori non hanno mai espressamente parlato di ciò che è accaduto alle loro famiglie durante la guerra. Le memorie dell’Olocausto vivono in loro anche se sconosciute.

E, aggiunge l’autrice, che quanto maggiore è l’esperienza accumulata con i pazienti, tanto più comprende come tutti noi siamo inconsciamente connessi alle persone che ci circondano, e tale connessione spesso si manifesta con molte inspiegabili coincidenze che si presentano nel setting terapeutico con i nostri pazienti.

Nella seconda parte si tratta il tema dell’abuso sessuale come una delle esperienze traumatiche più confusive che conosciamo. L’aspetto intergenerazionale dell’abuso sessuale è peculiare, nel senso che quanto vissuto da una generazione si ripercuote sulla successiva, infliggendole il dramma del trauma sessuale subìto. Spesso il mondo della generazione successiva è sessualizzato nello stesso modo in cui la vittima è stata sessualizzata nell’infanzia. Questi bambini si sentono sopraffatti dalla sessualità non integrata dei propri genitori, dai confini indefiniti, e spesso l’adulto che cerca di dare un significato alle proprie sensazioni comunica al bambino la propria confusione rispetto a ciò che è sicuro e ciò che non lo è. L’originaria confusione tra innocenza e perversione ricompare nella generazione successiva, in cui seduzione, promiscuità e proibizione si intrecciano.

Sempre nella seconda sezione si svelano i segreti e le realtà nascoste dei nostri genitori risalenti a prima della nostra nascita e al periodo della nostra infanzia esplorando le perdite di fratelli, siano esse note o sconosciute, e il loro impatto sui figli sopravvissuti e sugli stessi figli di questi. L’autrice descrive i dilemmi dei bambini non accolti, bambini frutto di gravidanze indesiderate, e la loro incessante lotta per rimanere vivi. Osserva i padri e la paternità, esplorando la relazione tra riparazione e ripetizione. Ci ricorda che il nostro desiderio di sanare il trauma dei nostri genitori, di curare le loro anime ferite, può al contrario portarci a rivivere e a ripetere le loro storie dolorose.

É invece la capacità di accettare quello che non può essere cambiato o riparato che ci consente di avviare il processo del lutto.

La nostra eredità emotiva modella i nostri comportamenti, le nostre percezioni, i nostri sentimenti e persino i nostri ricordi. Sin dalla più tenera età, impariamo a leggere i segnali dei nostri genitori, impariamo ad aggirare le loro ferite, cercando di non menzionare quello che non deve essere ricordato. Nel nostro tentativo di evitare il loro dolore e il nostro, ignoriamo quello che è davanti ai nostri occhi.

Nella terza e ultima parte l’autrice esamina il viaggio che dobbiamo compiere per conoscere noi stessi, per elaborare i traumi del nostro passato e per accettare i nostri limiti. Analizzare l’eredità emotiva che potremmo trasmettere alla generazione successiva è un movimento verso la rottura del ciclo del trauma intergenerazionale; questo è il lavoro emotivo che facciamo non soltanto per chi ci ha preceduto ma anche per i nostri figli. Questa terza parte descrive il continuo processo di analisi delle nostre vite, le cicatrici del nostro trauma infantile e il desiderio di essere genitori migliori dei nostri stessi genitori. La crescente abilità di integrare ed elaborare il dolore ci aiuta a trovare significato, a guarire, a vivere la vita alla massima espressione e a crescere la generazione successiva con onestà e integrità.

Attualmente il campo dell’epigenetica ci offre una cornice diversa per comprendere come natura e cultura si compenetrino e come gli esseri umani reagiscano all’ambiente anche a livello molecolare, sottolineando come i geni abbiano una memoria che può essere trasmessa da una generazione all’altra. L’implicazione di queste nuove ricerche è duplice: il trauma può essere trasmesso alla generazione successiva ma il lavoro psicoterapeutico può cambiare e modificare gli effetti biologici del trauma. Il trauma viene trasmesso attraverso le nostre menti e i nostri corpi, ma lo stesso si può dire della resilienza e della guarigione. Rivivere il dolore dei nostri antenati ci consente di riferirci al passato traumatico per immaginare un futuro possibile.

Marta Lepore
Psicologa, Psicoterapeuta Supervisore EMDR, Centro Clinico de Sanctis Roma

Vedi su Amazon

Ti potrebbe interessare