Affrontare il trauma. Verso una psicoterapia integrata (recensione di Anna ROSSI)

Dimaggio G. (a cura di) (2021), Affrontare il trauma. Verso una psicoterapia integrata, Apertamenteweb, Roma, 2021, pp.167, euro 28,00.

Se solo non avessi ignorato le suppliche di mia madre, lei sarebbe ancora viva”: è così che suona quel dialogo interno, silenzioso e incessante, che nutre il senso di colpa e di indegnità di Alice.

Della rapina nella banca in cui lavora, e in cui è stato poi difficile tornare, Antonella ricorda soprattutto il freddo della pistola puntata alla testa, un ricordo che non la molla e che occupa tanto spazio nella sua memoria, al punto da non permettere ad altri ricordi di emergere.

Francesca, vissuta in un ambiente familiare costellato da continue svalutazioni, umiliazioni, colpevolizzazioni, cerca un suo posto nel mondo e crede di poterlo trovare solo nella marginalità. Poi c’è Liliana con gli abusi che per anni ha subito dal nonno, il disgusto, la solitudine, la confusione e quella necessità compulsiva di avere il controllo nelle relazioni.

E ancora Davide con la sua vita “minima”, fatta di poche gratificazioni e tanti rituali, di poche relazioni e molte somatizzazioni, di sentimenti di inettitudine, vergogna e paura.

Queste sono solo alcune delle storie cliniche che troverete in questo libro. E mentre sto qui a scrivere di loro, mi attraversano la mente alcuni versi di Hurt: “The old familiar sting, Try to kill it all away, but I remember everything. What have I become…”. Lo raccontano bene quel dolore, i tentativi fallimentari di cancellarlo e prenderne le distanze, la sensazione che qualcosa in profondità si sia irrimediabilmente deteriorato.

Anche i pazienti di queste storie, come l’uomo cantato da Nine Inch Nails prima e Jonny Cash dopo, sono stati feriti dalla vita in modo traumatico e di quelle ferite portano ancora i segni. Alcuni sono stati investiti da eventi improvvisi che, con la forza di uno tsunami, hanno travolto ogni senso di sicurezza, distrutto le credenze su di sé e sul mondo su cui si appoggiavano, spezzato il senso di continuità delle proprie vite, tra il prima e il dopo. Altri invece si sono trovati impigliati in esperienze che, in modo subdolo e continuo come l’azione dell’acqua che scava nella roccia, hanno eroso gli aspetti positivi dell’immagine di sé e il sentimento di fiducia negli altri, compromettendo lo sviluppo della loro personalità. Altri ancora hanno conosciuto entrambe le cose, trovandosi già scalfiti prima che lo tsunami arrivasse o stravolti ancora dal suo impatto a precipitare nel canyon delle relazioni disgreganti. Per tutti loro, quegli eventi hanno avuto il potere di penetrare fin sotto la pelle e di innestarsi nel corpo, agendo da lì come un piccolo ma potente computer di bordo, con un sistema di allarme assai sensibile alle variazioni ambientali, capace di guidare in modo automatico le  reazioni fisiologiche, le emozioni, i pensieri e i  comportamenti. Ansia, depressione, sentimenti di impotenza e vulnerabilità, irritabilità, flashback, incubi e ricordi intrusivi, disturbi dell’attenzione, evitamenti, problemi relazionali, sviluppo di dipendenze sono tutti sintomi del PTSD cui si aggiungono, nel caso in cui il trauma abbia avuto una matrice relazionale e si sia reiterato nel tempo, importanti sintomi dissociativi, somatizzazioni, disregolazione emotiva e sviluppo di schemi interpersonali maladattivi.

Come possiamo dunque noi clinici aiutare queste persone a stare meglio? La letteratura scientifica sul trattamento del trauma è assai ricca e diversificata, per cui immaginiamo – io l’ho fatto – che questo libro ci darà una risposta. E in un certo senso è così, ma non proprio così.

All’interno del volume ogni capitolo è dedicato alla descrizione di uno degli approcci più diffusi e validati per trattare il PTSD, nella sua forma semplice o complessa: la teoria dell’ Esposizione prolungata, la Psicoterapia Interpersonale, l’EMDR, la Schema-Therapy, la Terapia Cognitivo-Evoluzionista integrata all’EMDR, la Control-Mastery Theory, l’Emotion-Focused Therapy, ovviamente, la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI).  Ogni approccio assume qui il valore di particolare prospettiva di osservazione e intervento sul trauma ed è sostenuto da un solido rationale che orienta la tecnica e che in tutti i casi presta attenzione alla creazione di sicurezza nella relazione terapeutica e accorda valore alla fase di psicoeducazione nel corso del trattamento.

Andando avanti nella lettura, però, sono stata colta dal dubbio che il ritmo incalzante con cui lo stavo leggendo, quello di una carrellata sugli approcci al trauma, non fosse quello giusto. Conosco personalmente Dimaggio e no – mi sono detta – non può essere questo. Ho cambiato il passo e sono tornata alle storie cliniche, alle difficoltà di queste persone a sentirsi al sicuro, presenti a se stesse e competenti nel vivere la propria vita. Il ritmo ha rallentato e mi sono ricordata di alcune righe sottolineate a matita nelle primissime pagine in cui Dimaggio, curatore del volume, si interroga su che cosa significhi per il clinico curare il trauma. Detto in termini più ortodossi, lui si chiede se la sola riduzione dei sintomi rappresenti l’outcome più importante cui aspirare nel trattamento e poi, senza dubbi, risponde di no. Mi sono accorta allora che, ancor prima di quella domanda che mi sembrava così rilevante, ce ne sta un’altra fondamentale, che rimane sullo sfondo ma che rappresenta, a mio avviso, la guida alla lettura di questo volume: che cosa può significare per un paziente traumatizzato stare meglio? Possiamo noi clinici definirlo in astratto, senza tener conto di quello specifico paziente e del suo particolare modo di attraversare la vita? Possiamo aspirare a una ricetta che vada bene per tutti? O abbiamo invece bisogno di puntare alla crescita post-traumatica, alla costruzione di un nuovo e più adattivo significato di quello che è accaduto, al riaccendersi della speranza in un futuro che somigli a quei desideri e bisogni che il trauma ha ricacciato in un angolo polveroso della mente, al riaffiorare della convinzione che la vita meriti di essere vissuta nonostante tutto?

Ecco, finalmente – mi sono detta – il criterio cui affidarsi per scegliere un piatto nel ricco buffet di terapie a disposizione per il trauma di cui parla Wampold nel capitolo 7: la specificità di quel preciso paziente con PTSD.

Le storie di Francesca, Liliana e Davide sono sì tutte storie di PTSD, ma anche e soprattutto qualcosa di più. Sono storie di personali progetti rimasti dietro le sbarre, di speranze appassite, di esistenze non vissute più come soggettivamente significative e di valore. Ed è a questo, all’unicità di quella persona seduta di fronte a noi nella stanza di terapia, che noi clinici dobbiamo rivolgere tutta la nostra attenzione per non limitarci a una diagnosi e approdare a una precisa e profonda concettualizzazione del caso cha faccia luce su come quello specifico drammatico evento abbia impattato su quello specifico mondo interno. Perché è solo attraverso una attenta formulazione che il clinico, di qualunque orientamento sia, potrà orientarsi nella scelta di una tecnica rispetto a un’altra o verso una particolare forma di integrazione, offrendo così un trattamento che sia validato ma anche su misura. Un libro dunque da cui trarre interessanti spunti e indicazioni, consigliato a tutti quei colleghi che desiderano muoversi con maggior consapevolezza verso una terapia integrata capace di affrontare il trauma.

Anna Rossi
Psicologa e Psicoterapeuta a orientamento Cognitivo Comportamentale, Terapeuta TMI Expert, Terapeuta con formazione addizionale in EFT e facilitatrice di mindfulness. Da più di dieci anni opera a Reggio Calabria

VAI ALLA SCHEDA DEL LIBRO

Ti potrebbe interessare