Emergenza Covid-19 e isolamento sociale: il perché biologico e filogenetico dell’impatto sulla salute mentale (di Grazia ATTILI)

Con l’inizio dell’emergenza CoronaVirus, psicologi, psichiatri, psicoterapeuti hanno cominciato a richiamare l’attenzione sulle reazioni mentali e fisiologiche manifestate dalla popolazione in un momento così drammatico. Molte persone, infatti, hanno mostrato di sperimentare una serie di disagi, quali disturbi di ansia, disturbi dell’umore, stati depressivi, in alcuni casi attacchi di panico, alterazioni nei ritmi sonno-veglia e nell’alimentazione, insonnia nonché sintomi riconducibili al disturbo da stress post traumatico (PTSD), sia nella sua accezione di trauma primario ( quello che emerge per aver subito in prima persona un evento catastrofico, che implichi una minaccia alla propria vita) sia in quella di trauma secondario ( quello che emerge quando si assiste a situazioni traumatiche vissute da altri). Queste risposte sono comprensibili visto che la situazione si è subito palesata e tuttora si pone come fortemente stressogena, in quanto caratterizzata da una serie di informazioni incerte e mutevoli sulle effettive cause dell’epidemia, sul suo decorso, sulle terapie per curarla, sulle modalità di contagio da parte un Virus sconosciuto e altamente letale, così che è possibile vedersi come continuamente a rischio per la propria vita. I media, inoltre, trasmettono di continuo immagini di persone in fin di vita per l’epidemia e comunicano numeri impressionanti sulla presenza dei contagi. Inoltre, alcuni si sono dovuti confrontare con la malattia e con la morte delle persone a loro care.

Il disagio psicologico, tuttavia, si è come amplificato nel momento in cui è partita la richiesta del Governo di restare a casa in isolamento, di mantenere le distanze dagli altri,  di non abbracciarsi, baciarsi, toccarsi, darsi la mano. All’ improvviso, tutti si sono visti tagliati fuori dalla vita sociale; non necessariamente e non solo quella che fa capo ad  amici e parenti ma anche quella che comprende altri che non si conoscono, come le persone che si incontrano al cinema, che frequentano i luoghi in cui ci si reca, o che, semplicemente, camminano per strada nello stesso momento in cui loro camminano. Gli altri, estranei e non estranei, non possono più essere visti, né tanto meno essere toccati. E anche se in Italia non abbiamo ancora evidenze empiriche per ciò che concerne l’impatto dell’isolamento sociale sulla salute mentale, dalle ricerche condotte nei Paesi in cui alcune popolazioni  hanno dovuto affrontare nel passato un lockdown di massa, a seguito di una qualche epidemia- come la SARS del 2003, per esempio-, sappiamo che i soggetti di questi studi presentavano, per lo più, gli stessi disturbi che vengono rilevati e riportati, a livello clinico, in questo periodo, dagli psicologi, psichiatri e psicoterapeuti delle nostre realtà. In quelle popolazioni era riscontrabile, infatti, un’alta incidenza di quei sintomi di cui dicevamo sopra, quali depressione, insonnia, ansia, irritabilità, nonché Disturbi da Stress Post Traumatico (PTSD) ( per uno studio condotto a Pechino, in Cina: Mihashi et al. 2009). Inoltre, lì dove sono state messe a raffronto le risposte delle persone che si trovavano o in quarantena o in isolamento con quelle di coloro che pur trovandosi in una situazione di emergenza non subivano il distanziamento sociale, i disturbi riconducibili ad una sintomatologia ansiosa o da (PTSD) emergevano molto più nei primi che nei secondi: su un campione costituito da genitori e dai loro figli, testato durante la SARS in Canada, l’ ansietà appariva nei bambini in isolamento con punteggi quattro volte più alti rispetto a quelli riscontarti in coloro che non erano stati isolati, e disturbi mentali correlati al trauma, quali depressione, irritabilità, insonnia, disagi emotivi sono stati riscontrati nel 28% dei loro genitori rispetto al 6% di coloro che non avevano subito restrizioni sociali (Sprang e Silman 2013).

Le esperienze dei soggetti posti in quarantena in quanto erano stati esposti alla malattia e quindi potenzialmente a rischio di infettare gli altri non sono pienamente riconducibili a quelle di coloro che subiscono un isolamento come strategia precauzionale per contenere il contagio. Essere in quarantena comporta, di certo, uno stress maggiore, dovuto alla paura di aver contratto il virus e all’aspettativa di poter essere oggetto di uno stigma sociale. Tuttavia, dagli studi su citati emerge che lo stare lontano dagli altri, sia in quarantena sia semplicemente in un lockdown di massa, si configura comunque come una delle variabili più importanti al fine dell’esordio di una sintomatologia ansiosa.

Ma come mai la mancanza degli altri, il distanziamento sociale ha un tale impatto sulla salute mentale e fa aumentare cosi tanto le reazioni di disagio, come sta accadendo ora, in Italia, nella popolazione, per così dire, normale? Sembrerebbe che in questo periodo di isolamento, che in larga parte si mantiene anche in quella che è stata definita la fase 2, le persone si stiano rendendo conto che non è vero che “l’inferno sono gli altri”, come sosteneva Jean Paul Sartre, ma che l’inferno è quando gli altri non ci sono. Ebbene, una interpretazione plausibile è  quella che  fa ricorso 1) al modo in cui si è dipanata la nostra evoluzione biologica, nei milioni di anni che ci hanno portato a divenire esseri umani, e 2) al modo in cui, di conseguenza, sono organizzati il nostro cervello e la nostra mente.

La socialità e il ruolo degli oppioidi

Ai primordi della nostra specie, nell’ambiente pieno di pericoli in cui vivevano i primati umani, la sopravvivenza era assicurata dalla possibilità di mantenere il contatto e la vicinanza con altri individui (Darwin 1871). La loro assenza esponeva al rischio di essere attaccati dai predatori ; rendeva difficile, se non impossibile, affrontare le avversità ambientali. Di conseguenza, la selezione naturale ha fatto sì che la nostra programmazione genetica preveda che noi siamo inclini a cercare fortemente gli altri e che la socialità produca, in automatico, un forte senso di benessere, attraverso un meccanismo che ha a che fare con il funzionamento del nostro cervello (Attili 2017). La presenza di parenti, amici, conoscenti, estranei, il solo fatto che essi ci siano, porta ad un innalzamento, nel nostro cervello, del livello degli oppioidi endogeni. Questi sono analoghi alle droghe della famiglia degli oppiacei (l’oppio, la morfina, l’eroina) e provocano piacere. Gli “altri” sono gli stimoli che producono queste droghe all’interno dell’organismo. L’essere con gli altri si pone, pertanto, come una vera e propria ricompensa sociale e provoca quelle reazioni cerebrali e fisiologiche che inducono le sensazioni delle quali si ha bisogno per stare bene.

Siamo regolati, in altri termini, da un sistema neurobiologico che modula l’attività di queste sostanze. Quando si sta da soli, si ha una ridotta attività di questo sistema, il quale comporta, a livello neuronale, una minore presenza di oppioidi nel cervello e quindi un maggior bisogno di avere relazioni sociali e di lasciarsi coinvolgere in relazioni affettive (Panksepp 1998). Quanto più siamo costretti a non vederli, gli altri, tanto più li desideriamo, e tanto più proviamo frustrazione, agitazione, depressione se non possiamo entrare in contatto con essi. Abbiamo, in pratica, delle reazioni simili ai tossicodipendenti in crisi di astinenza!

Gli altri, inoltre, per il solo fatto di esserci, anche se non li conosciamo, ci mettono anche in uno stato di attivazione fisiologica, di arousal, così che perfino le nostre prestazioni migliorano quando ci sono degli astanti, secondo un fenomeno che viene detto di “facilitazione sociale” (Zajonc 1965). I corridori, i ciclisti corrono di più e meglio se ci sono persone che li guardano; chi fa jogging mostra più energie se corre con altri, anche se non vi è nessuna competizione; gli attori danno il meglio di sé se recitano davanti ad un pubblico Siamo dotati, in pratica, di una tendenza innata ad essere eccitati dalla presenza dei conspecifici. Questa tendenza, peraltro, é presente anche in altri animali: le risposte di facilitazione sociale compaiono, per esempio, nelle formiche, che scavano di più in presenza di altre formiche, nei polli che mangiano di più quando non sono soli.

Gli altri, quando ci sono, determinano una prontezza a rispondere, uno stato di allerta, rimasto nel nostro patrimonio genetico, a seguito della selezione naturale, in quanto consentirebbe di far fronte a qualsiasi azione imprevista essi possano compiere. Questo stato si tramuta in un’eccitazione che fa sentire vivi. E, da alcuni esperimenti condotti nell’ambito della psicologia sociale, emerge che perfino se viene chiesto a dei  soggetti di esprimere le loro preferenze difronte ad una gamma di colori, le risposte sono più decise se vengono espresse in presenza di astanti; eppure non si tratta di un compito in cui ci siano risposte giuste o sbagliate (in Attili 2011).

Non a caso l’essere rifiutati, l’essere emarginati induce uno stato di malessere così profondo da portare ad un vero e proprio “dolore sociale” (Panksepp 2003). Questo dolore potrebbe essere ricondotto ad una riduzione degli oppioidi, per l’appunto, quale conseguenza del non poter godere di una socialità. Peraltro, il dolore, che si prova  quando si è impossibilitati a stare con gli altri, è identico a quello che può derivare da una ferita nel corpo, da un dolore fisico.

Da una serie di esperimenti, che utilizzano tecniche di  neuro-imaging, ovvero basate sull’utilizzo della risonanza magnetica funzionale,  emerge che una bruciatura, provocata in via sperimentale, e stare male per essere emarginato ( o abbandonato dal proprio partner) fanno attivare, nel cervello, le stesse aree, ovvero quelle che fanno capo alla corteccia cingolata dorsale anteriore (un’area cerebrale coinvolta negli stati di preoccupazione), la corteccia ventrale prefrontale e l’insula dorsale posteriore, ovvero quelle regioni  che sono deputate alla registrazione di stimoli fisici dolorosi (Eisenberger e Lieberman 2003). In altri termini il dolore sociale e il dolore fisico  si basano su processi neurali analoghi.

La paura di stare da soli

A questa necessità/bisogno di socialità si accompagna, in maniera speculare, la paura di stare da soli. Stare da soli, come abbiamo già detto, esponeva al rischio di non potersi difendere dagli attacchi dei predatori e dei conspecifici così che questa paura si è distillata nel nostro patrimonio genetico proprio per indurci a cercare di rimanere il più possibile in compagnia. La paura di stare da soli è, pertanto, a base innata e, insieme alla paura del buio, si manifesta già alla nascita. I neonati piangono disperati se lasciati senza nessuno o al buio. In questo modo, fanno sì che la madre si avvicini così che riescono a mantenere il contatto con la figura che, ai primordi della nostra specie, era ( ed è, per lo più, tuttora)  deputata a proteggerli dai pericoli e assicurarne la sopravvivenza. E la propensione ad aver una forte paura della solitudine si manifesta anche negli adulti,  proprio perché è strettamente correlata, secondo percorsi ancestrali, alla possibilità di non morire.

La ricerca del contatto e il ruolo dell’ossitocina

A base genetica può essere considerata anche la ricerca del  contatto. La Teoria dell’Attaccamento ha messo in luce come nel momento in cui percepiamo un pericolo, che può essere esterno ma anche interno ( stare male fisicamente e/o emozionalmente) si attiva un sistema motivazionale detto sistema dell’attaccamento, a base innata, che spinge a mettere in atto tutti i comportamenti o ad esprimere tutte le emozioni ( si piange, si chiede aiuto, ci si accosta, si cercano abbracci e carezze) che possano produrre l’accostamento di quella figura “più forte e/o più saggia”, detta figura di attaccamento (per lo più la madre, da piccoli; il partner con cui si condivide la vita, in età adulta),  che, per una logica filogenetica, è propensa a salvare la vita offrendo protezione e conforto (Bowlby 1969). Il contatto con questa figura faceva (e fa) venir meno la paura e contribuiva ( e contribuisce) ad una riorganizzazione delle emozioni. Inoltre, come del resto accade a tutti i mammiferi, se una madre stava (e sta) vicino al suo piccolo, abbracciandolo, nel cervello di entrambi venivano ( e vengono) rilasciati quegli oppioidi endogeni, di cui parlavamo prima, i quali procurano una sensazione di sicurezza e di piacere.

Il bisogno di contatto, peraltro, è un bisogno primario. Nell’ambiente di adattamento evoluzionistico il non poterne usufruire era causa di morte più della mancanza di cibo, così che siamo biologicamente predisposti, a reagire alla sua mancanza con menomazioni della salute, sia mentale che fisica. Dagli esperimenti di Harlow  sui macachi ( con i quali condividiamo  il 96% delle nostre caratteristiche genetiche) emerge, per esempio, che i piccoli isolati dalla madre e tenuti in gabbie di fil di ferro, benché allattati con dei biberon- che tuttavia erano tenuti da inservienti che non li toccavano in alcun modo-, mostravano serie di alterazioni dell’omeostasi fisiologica come scarsa conduttività cutanea, alterazioni nei ritmi di sonno e veglia, e nell’alimentazione, accelerazione del battito cardiaco; e alcuni morivano entro i primi cinque giorni di vita (Harlow e Mears 1979). E noi, quando perdiamo o ci separiamo da una persona cara, proviamo ansia, angoscia da separazione, la quale è caratterizzata dalle stesse reazioni riscontrate nei macachi da Harlow, e che Bowlby ha ben documentato, a seguito della sua pratica clinica, con pazienti che avevano perso o si trovavano lontani dalla loro figura di attaccamento (Bowlby1973; Bowlby 1980).

Il contatto con la figura specifica con la quale si ha un legame affettivo produce rilassamento, fa sentire sicuri, calmi, fa stare bene. La vicinanza, tuttavia, viene ricercata anche con chiunque venga percepito, in senso più lato, come in grado di proteggere e confortare. Ed è proprio questo bisogno che trova una sua espressione simbolica nella stretta di mano e nell’abbraccio che destiniamo alle persone e agli amici, quando li incontriamo. Ma a cosa sono da ricondurre gli effetti benefici del contatto?

Ancora una volta dobbiamo parlare del nostro funzionamento biologico. Il contatto produce il rilascio di ossitocina, un neurormone prodotto nella zona posteriore dell’ipofisi attraverso stimolazioni che provengono dall’ipotalamo. L’ossitocina viene detta ”l’ormone dell’amore”, perché viene rilasciata, nelle madri, durante l’allattamento, a seguito della stimolazione dei capezzoli. Ed è questo ormone ad avere il potere di indurre un senso di piacere, un piacere così profondo da  portare in maniera circolare a desiderare altro contatto.

L’ossitocina agisce, inoltre, sui centri della memoria e fa bloccare, almeno per un po’, i ricordi negativi. Questo neurormone, peraltro, è responsabile anche della socialità intesa in senso più lato, del piacere di stare insieme, della fiducia interpersonale, e porta ad avere, quando si sta in compagnia, una sensazione di benessere e di sicurezza emozionale (Carter et al. 2008). Non a caso il “ dolore sociale” descritto da Panksepp, cui accennavamo prima, è associato anche ad un crollo dei livelli di ossitocina. E attraverso una meta-analisi delle ricerche su questo argomento emerge che quando, sperimentalmente, questo ormone viene somministrato nel naso con uno spray si riscontra nei soggetti una maggiore capacità di riconoscere le emozioni altrui e un aumento della fiducia negli altri (Bakermas-Kranenbourg e van Ijzendoorn  2013).

Il ruolo dell’amigdala e gli ormoni dello stress

L’ossitocina, in aggiunta, riduce l’attività dei neuroni dell’amigdala, quella parte del cervello che si attiva quando si percepisce un pericolo e che è responsabile delle immediate risposte di paura che vengono manifestate e messe in atto. L’amigdala è coinvolta anche nella memoria emozionale e mette in connessione gli stimoli ricevuti dall’esterno con le esperienze passate, anche ad un livello inconscio, così da indirizzare le reazioni prima che l’informazione sia analizzata razionalmente.

Quando ci si trova a confronto con un evento considerato pericoloso, questa area cerebrale invia in automatico segnali di emergenza e fa rilasciare gli ormoni necessari per la difesa, quelli che vengono detti gli ormoni dello stress. E questo è tanto più vero se quello stimolo ricorda, anche senza che ce ne rendiamo conto, qualcosa che ha procurato un danno in passato. In questo periodo, per esempio, l’amigdala potrebbe attivarsi anche a seguito delle associazioni che, in maniera inconsapevole, alcuni fanno con il razionamento delle vettovaglie durante l’ ultima guerra; o addirittura con i ricordi di quello che abbiamo letto nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni sugli effetti della peste a Milano, nel 1630 o sulle conseguenze della peste ad Atene nel V secolo, descritte da Tucidide nella Guerra del Peloponneso.

L’isolamento e l’interazione tra ossitocina ed amigdala

Durante l’isolamento per l’emergenza Covid-19, l’attivazione dell’amigdala, a seguito della percezione del pericolo costituito dal CoronaVirus, non può essere modulata dalla presenza e il contatto con le altre persone, siano esse più o meno care, e dal conseguente rilascio di ossitocina. Le  risposte di paura provocano, pertanto, un aumento esponenziale degli ormoni dello stress ( quali il cortisolo, per esempio). E gli ormoni dello stress, utili quando si deve affrontare una situazione di pericolo immediato e momentaneo ( visto che pongono l’organismo in uno stato di allerta e mettono a disposizione le energie di cui il corpo ha bisogno per far fronte ad un’emergenza) hanno ricadute dannose, se la situazione di tensione e di emergenza si protrae a lungo, o  si appalesa come molto più duratura del previsto. Di qui, l’impatto pesante sull’ omeostasi fisiologica, che si manifesta nelle reazioni collegate all’ansia, di cui sopra, nonché il rischio di andare incontro ad  un abbassamento delle difese immunitarie.

In conclusione, l’isolamento, che vige tuttora, l’impossibilità, che ha caratterizzato la fase 1 di poter ricorrere alle persone care per farsi confortare in questi momenti di paura- come è accaduto essenzialmente a coloro che, per una qualche ragione, si siano ritrovati da soli, o perché già vivevano senza un nucleo familiare, o perché separati, per motivi logistici, dal partner, o perché, da anziani, non hanno potuto incontrare figli e nipoti-, la possibilità, nella fase 2 ,di vedere i propri affetti senza, tuttavia, poterli abbracciare e baciare, il sentirsi esclusi socialmente (per molti mantenere la distanza dagli altri durante le poche uscite concesse dal lockdown può essere stato sentito come un rifiuto attivo da parte del proprio gruppo sociale), ha comportato e comporta a) l’impossibilità di usufruire degli oppioidi endogeni forniti dalla presenza degli altri, con la sensazione di piacere che ne deriva, b) un crollo dei livelli di  ossitocina, dovuto alla mancanza di contatto sociale e affettivo, e conseguentemente c) una scarsa regolazione dell’amigdala, con i pesanti effetti che ne possono derivare.

I disturbi psicologici, di cui dicevamo, riscontrati in ambito clinico possono, quindi, bene essere visti come il risultato di variabili biologiche attivate  dalla mancanza di una socialità intesa in senso lato, dall’ ansia da separazione dalle proprie figure di attaccamento, nonché dell’interazione di questi fattori con la paura del pericolo. Tener presente, inoltre, l’associazione tra abbassamento dell’ossitocina, dovuto alla mancanza di contatto con le altre persone e diminuzione della fiducia interpersonale fa capire come il non poter godere della socialità può, in maniera paradossale, spingere a vedere gli altri, di cui si ha biologicamente bisogno, come pericolosi (sono possibili untori! sono rivali nell’ acquisizione di risorse! sono irrispettosi delle regole!) e magnificare di conseguenza il senso di solitudine, la percezione della propria fragilità e impotenza, l’ipervigilanza, l’evitamento, e l’angoscia suscitata dal Covid-19.

Le differenze individuali e i modelli mentali dall’attaccamento

Certo, non in tutti l’isolamento da Covid-19 ha un impatto sul disagio mentale. Gli individui affrontano lo stress da lockdown in maniera diversa in funzione delle loro caratteristiche genetiche e/o a seguito delle esperienze di accudimento che hanno caratterizzato la loro infanzia. Le ormai numerosissime ricerche condotte a partire dagli studi di Mary Ainsworth all’interno della Teoria dell’Attaccamento (Ainsworth et al. 1971) ( riportate in Attili 2017) hanno mostrato che il modo in cui si è allevati da piccoli dà luogo a delle  immagini mentali di se stessi e degli altri, che vengono dette “modelli mentali dell’attaccamento”, le quali danno conto della maggiore o minore resilienza di fronte ai pericoli. Possiamo prevedere, sulla base di  queste evidenze,  che  le persone con un attaccamento sicuro, esito dell’ aver usufruito da piccoli di una figura di attaccamento pronta ad aiutare e confortare in caso di necessità, siano dotati di una maggiore fiducia negli altri, dell’aspettativa di poter essere aiutati ove necessario, e che, pertanto, siano maggiormente forti e più capaci di gestire il trauma derivante dal doversi confrontare con l’emergenza CoronaVirus. Peraltro, da alcuni studi emerge che l’attaccamento sicuro, già in età infantile, si pone come fattore di protezione rispetto all’emergere di una sintomatologia ansiosa e/o depressiva (Di Pentima et al. 2019).

Coloro che hanno esperito una madre imprevedibile, incapace di dare risposte contingenti alle richieste di conforto, e che pertanto non si fidano degli altri e si vedono come fragili e impotenti difronte alle avversità, (è il caso di coloro che a seguito di queste esperienze infantili hanno modelli mentali dell’attaccamento insicuri/ ambivalenti), è probabile che possano reagire all’isolamento con un maggior senso di esclusione, una più grande mancanza di fiducia interpersonale, con un’attivazione maggiore del bisogno di essere confortati attraverso il contatto. Coloro che , invece, abbiano esperito da piccoli il rifiuto sistematico dei loro bisogni di protezione e di aiuto, e che, pertanto, si vedono costretti a fare da soli,(è il caso delle persone che vengono dette insicure/evitanti nei loro modelli mentali dell’attaccamento), potrebbero essere portati a negare la pericolosità della situazione e avere addirittura la sensazione di stare bene senza gli altri. E in entrambi i casi le persone insicure, a causa di una maggiore attivazione dei fattori biologici e neuronali di cui dicevamo prima, potrebbero andare incontro più facilmente a quadri sintomatologici di tipo disorganizzante e/o ansioso. La autopercepita fragilità e impotenza degli ambivalenti, nonché la loro ipersensibilità ai segnali di minaccia, potrebbe implicar un crollo maggiore dei livelli dell’ossitocina e una maggiore attivazione dell’amigdala. L’esibizione di autonomia degli evitanti e il loro controllo delle emozioni durante la separazione dalle persone care, potrebbero portare ad un rilascio maggiore degli ormoni dello stress, in quanto, ad un livello profondo e non consapevole, coloro che hanno questo modello mentale dell’attaccamento soffrono per il sentirsi costretti a non usufruire dall’aiuto degli altri così che l’isolamento potrebbe configurarsi come particolarmente stressogeno. Non a caso, Allen e collaboratori (1998) hanno trovato che l’attaccamento insicuro è alla base del mantenimento del disturbo da stress post-traumatico, nella sua articolazione di disturbi del pensiero, depressione, instabilità patologica.

I modelli mentali dell’attaccamento si pongono, inoltre, come “diatesi da stress”: un attaccamento insicuro potrebbe essere considerato una diathesis, che, se colpita da un fattore stressogeno di tipo sociale, ambientale o interpersonale (il quale, per di più, appare  maggiormente saliente a chi ha un modello operativo interno non sicuro), attiva un processo patologico latente. E potrebbe essere il caso di chi, abbia subito un qualche trauma infantile e che pertanto sia più suscettibile a ritrovare nella situazione attuale elementi simili a quelli vissuti da bambini, così da far scatenare la sintomatologia da stress post traumatico.

Le differenze individuali potrebbero essere anche ricondotte ad assetti genetici, tra i quali quelli che fanno capo al funzionamento del sistema neurobiologico degli oppioidi.. Se un individuo è “dotato” di un cervello caratterizzato da un incremento dell’attività di questo sistema ( se, in altri termini, produce da solo molti oppioidi) ci possiamo aspettare che di conseguenza il suo bisogno di affiliazione e di appartenenza sia molto ridotto così da non avere bisogno degli altri per stare bene. Le persone dotate di una variante genica responsabile di un minor funzionamento del sistema e quindi di una minore presenza di oppioidi sono meno evitanti e hanno più bisogno degli altri per produrre questi neuro-ormoni (Troisi et al. 2012). La previsione, quindi, è che i primi non risentano troppo dell’isolamento sociale, mentre i secondi potrebbero soffrire di più per il lockdown e mostrare più sintomi di disagio.

Conclusioni

In conclusione, l’utilizzo dei principi dell’evoluzione e il far ricorso ai costrutti della Teoria dell’Attaccamento nell’interpretazione delle variabili biologiche sottostanti i disagi psicologici, tener presente che i vari disturbi sono l’esito del venir meno di quelle condizioni che ai primordi della nostra specie hanno assicurato la sopravvivenza può aiutare a comprendere meglio cosa accade negli individui durante l’isolamento sociale, nonché può essere di grande aiuto nel definire le forme e i programmi di intervento psicoterapeutico di cui la popolazione ha bisogno nell’ immediato e ancor più nel prossimo futuro.

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Grazia Attili

Professore Ordinario di Psicologia Sociale, attualmente Professore Emerito e Direttore dell’Unità di Ricerca “Sistemi Sociali, Strutture Mentali e Attaccamento” presso il Dipartimento di Scienze Sociali ed Economiche dell’Università di Roma “Sapienza”. Ha introdotto per prima in Italia negli ambiti psicologici la prospettiva evoluzionistica e la Teoria dell’Attaccamento. Ha lavorato a lungo con Robert Hinde , presso il Medical Research Council di Cambridge (Gran Bretagna) e con gli allievi di Konrad Lorenz, presso il Forschungsgruppe fuer Humanethologie del Max Planck Institut fuer Verhaltensphysiologie di Andechs ( Germania). E’ autrice di numerosi articoli su riviste internazionali ed italiane, e di libri tra i quali, per Il Mulino, “Attaccamento e Amore” (2004) , “Psicologia Sociale- Tra basi innate e influenza degli altri ” (2011), L’Amore Imperfetto: Perché i genitori non sono sempre come li vorremmo” ( 2012); “Il Cervello in Amore: Le donne e gli uomini ai tempi delle neuroscienze” (2017). Per Raffaello Cortina, “Attaccamento e Costruzione Evoluzionistica della Mente: Normalità, patologia, terapia” (2007).

06/05/2020

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