(recensione di Massimo De Franceschi e Antonio Onofri)
La sessualità al servizio di una profonda connessione umana.
Una notte a New York (titolo originale Daddio), film del 2023 scritto e diretto da Christy Hall, visionabile su Amazone Prime e sulle altre piattaforme.
Avviso: la recensione contiene ampie descrizioni del film.

Raramente la traduzione italiana dei titoli dei film stranieri ne rispecchia l’anima profonda; i titoli originali a volte suonerebbero strani o incomprensibili a chi non appartiene a quella cultura e lingua: per richiamare il pubblico italiano i titoli devono ‘calzare’ il nostro modo di pensare. Capita, però, che la traduzione lasci indietro l’elemento centrale del film… ma non è questo il nostro caso. ‘Daddio’ (papino), titolo originale del film, avrebbe, a mio parere troppo centrato l’attenzione su un’unica tematica del lungometraggio. Il più ampio e meno definito ‘Una notte a New York’, invece, restituisce una complessità che rende giustizia alla diversità dei temi trattati nei 100’ del film.
Una notte a New York è un film Road Movie dove la strada si intuisce appena e crea l’occasione per l’incontro tra due persone che, nello svolgimento del film, ci stravolgono gli stereotipi legati al ruolo, cambiano i loro punti di vista e costringono noi spettatori a fare altrettanto, rendendoci consapevoli dei nostri schemi mentali che, come tutte le strutture di sostegno (al pensiero), sono necessari ma anche limitanti la comprensione della realtà multiforme e complessa. Che si tratti di un viaggio-film (siamo tutti in cammino in questa vita) lo si capisce subito dalle prime inquadrature: siamo all’interno di un aeroporto, tutti camminano velocemente, per raggiungere una meta o per fuggire da questo non-luogo alienante e anche della protagonista vengono inquadrate subito le gambe che scopriamo essere di una giovane e affascinante passeggera (una Dakota Johnson che emana una palpabile aura di seduttività) che cerca un taxi.
I pochi minuti iniziali e gli altrettanto pochi minuti finali del film sono gli unici che si svolgono fuori dal taxi: tutto il resto film, infatti, si gioca su campi, controcampi, mimica, dettagli dei volti, giochi di sguardi con gli specchietti retrovisori, inquadrature di dettagli del viso o delle mani. I volti, gli sguardi e i dialoghi sostengo da soli questo lungometraggio che vede i due protagonisti (l’altro è Sean Penn nella parte del taxista che riesce a passare da uno sguardo ammiccante a uno accettante e comprensivo muovendo solo pochi muscoli del viso, mostrando una capacità di recitazione strepitosa) avviare un dialogo per niente scontato. Dialogo che passa rapidamente da un livello superficiale, quello personale basato su pensieri/opinioni, a uno basato su bisogni e paure legate alla propria storia. La rapida connessione tra i due personaggi è favorita dalle scelte che prima la giovane donna (di cui non sapremo mai il nome e l’età) e poi il taxista compiono: lei appena salita sul taxi spegne il piccolo schermo posto sul retro del mezzo e resiste al richiamo del cellulare, così come all’utilizzo della radio; lui dopo poche frasi iniziali avvia un dialogo non scontato.
Ecco, il primo requisito per connettersi con le persone presenti (e successivamente con noi stessi) è disconnettersi con il mondo esterno, oggi sempre più invadente. La destinazione della ragazza non viene da lei riferita direttamente al taxista, ma per interposta persona, dall’addetto al richiamo dei taxi dell’aeroporto. Sarebbe potuto finire qui l’incontro, evitare che avvenisse e invece entrambi rifiutano questa modalità indiretta, asettica e superficiale di rapporto. Il colpo di clacson del taxista che sta dietro il loro vorrebbe accelerare la vita, come, dicevo, ormai è usuale in ogni campo, ma la risposta seccata del nostro taxista e un cartello che in seguito indica di rallentare sta a indicare il ridurre la velocità l’altro prerequisito per scivolare in una relazione profonda. Del taxista, prima del volto, si vedono alcune sue fotografie che lo ritraggono con quelli che potrebbero essere stati i suoi genitori o con altre persone e di lei scopriamo un primo messaggio sul cellulare di un uomo ben conosciuto che aspettava il suo atterraggio; entrambi sono immersi nelle loro vite: un incontro avviene sempre all’interno di una storia che ha sempre un prima e un dopo. Una storia che ci fa essere quelli che siamo. Il passaggio a un registro comunicativo più profondo viene esemplificato dall’utilizzo massiccio dei primissimi piani dei due volti: è il viso, infatti, ciò che ci caratterizza maggiormente per le sue fattezze e per l’utilizzo personale, spesso non consapevole, dei suoi numerosissimi muscoli (50 secondo una certa classificazione).
Ed è un film che, paradossalmente dato il poco spazio vivibile all’interno di un’automobile, ha come centro il corpo e infatti subito i due avviano una discussione sulla smaterializzazione del denaro e dei corpi che al posto del contatto fisico si relazionano attraverso la tecnologia: con il conseguente rischio di disumanizzazione per la quasi impossibilità di agire quei meccanismi motivazionali ed emotivi che si sono plasmati solo nel rapporto faccia-a-faccia durante milioni anni di evoluzione. Non così i nostri personaggi: i due entrano in contatto profondo, si connettono e si riconoscono come esseri umani, fino a far scorrere il vetro che li separa e accedere ad episodi personali di vita. Così iniziamo a conoscere queste due persone che il caso ha avvicinato una notte. E subito, a partire dalle iniziali informazioni che si trasmettono i due, ci costruiamo delle ipotesi (del resto il cervello fa questo in automatico, senza sforzo): lei al cellulare messaggia con un uomo che aspettava il suo ritorno e che invia e chiede foto ‘spinte’ (e subito siamo certi che sia il classico uomo che “ha in mente solo quello”, ipotesi rafforzata quando veniamo a sapere che è molto più grande della passeggera del taxi e che è sposato con figli) e del taxista veniamo a sapere dei suoi due matrimoni e di un elevato interesse “proprio per quello” che trapela da occhiate, allusioni, doppi sensi o frasi esplicite, che la ragazza non disdegna e che anzi a volte sembra incoraggiare.
Ecco, per gran parte del film l’atmosfera tra due è carica di una sensualità che sentiamo tenuta a bada a fatica e subito ci immaginiamo un possibile finale erotico tra i due e, invece, entrambi sono disposti a passare a un altro registro comunicativo: con pochi impercettibili movimenti oculari, muscolari e nel tono della voce si attivano, in modo organico, sensato, ma veloce, anche modalità accudenti, affettuose, cooperative, giocose e competitive. Una discussione centrale del film avviene quando lui scopre che il lavoro della passeggera consiste nell’elaborare codici informatici, si interessa dell’argomento e così scopre che tutto ciò che è ‘informatico’ si basa sul codice binario di 0 e 1. Questo codice ipersemplifica la vita: favorisce la logica e il determinismo sulla casualità e imprevedibilità (ma il loro viaggio è rallentato da un incidente non prevedibile); favorisce l’ordine sulla possibilità di caos creativo; favorisce la lettura della realtà come categoriale, per compartimenti stagni invece che una lettura basata su un continuum dove non ci sono salti decisivi.
Vero/falso, giusto/sbagliato sono modi di pensare che forse non si addicono a tutti i fatti della vita, e forse di più a quelli importanti, quelli che hanno a che fare con le relazioni che viviamo e quelli del nostro mondo interno. Con questa discussione la regista ci mette in guardia verso le ipotesi 0-1 che ci stiamo costruendo noi e i due protagonisti del film. Di lei scopriamo un’infanzia traumatica: abbandonata dalla madre, veniva legata dalla ‘sorellastra’ per verificare la sua capacità di liberarsi, ma soprattutto ha vissuto con un padre incapace di esprimere (provare?) affetto e che non l’ha mai toccata, accarezzata, coccolata… di cui però ricorda, ma scopriamo forse essere un falso-ricordo, una sua stretta di mano al momento della partenza per la vita con la sorella (ricordo che non sapremo mai se vero o no, resterà fuori dalla logica binaria).
La nostra teoria 0-1, quella del ‘vecchio marpione che si approfitta di una giovane donna dal passato difficile in cerca di un sostituto paterno’ (confessiamolo, l’abbiamo pensato tutti), entra in crisi nella prosecuzione del film: scopriamo che l’amante ha anche un atteggiamento tenero verso di lei oltre che verso i figli, chiede scusa per la richiesta di foto intime fatta, fuori contesto, poco prima e si interessa di come è andato il suo viaggio. Le dice anche che l’ama. Lei invece non appare più una giovane sentimentalmente sprovveduta, ma con alcune frasi erotiche e inviando una finta foto intima mostra la padronanza della modalità relazionale instaurata con l’uomo con cui ha comunque un coinvolgimento affettivo forte: il loro non è semplicemente un rapporto reciprocamente utilitaristico o predatorio. Questo passaggio da una relazione che sembrava basata solo sul sesso, ma che mostra ora anche veri aspetti teneri e affettuosi viene esemplificato con la visione della protagonista (ma a nostro beneficio) dal finestrino prima di una coppia appartata per fare l’amore in auto e più tardi di due innamorati che si baciano teneramente.
Anche le teorie dicotomiche e rigide del taxista sui rapporti uomo-donna vengono riviste alla luce di informazioni che via via lui ottiene. I due ora mostrano aspetti prima sotterranei. Lei manifesta una capacità di gestione dei rapporti basati sulla seduzione e sulla sessualità, ma che è volta a cercare una connessione profonda: il controllo, il liberarsi dalle imposizioni altrui (come dai legacci della sorella), l’utilizzo della propria prorompente sensualità è entrato a far parte degli aspetti personologici della protagonista. Aspetti di cui lei è, per buona parte, consapevole e che le fa mantenere il controllo della relazione e usandola strategicamente per cercare di colmare il vuoto lasciato dal padre nell’infanzia. Lui, dietro la ricerca esasperata di un contatto sessuale, confessa la necessità di un aggiramento della solitudine e ci restituisce un’immagine del taxista complessa e profonda. Per entrambi la sessualità è anche un tentativo, parzialmente riconosciuto, di raggiungere e mantenere l’altro in una connessione profondamente umana.
Del resto ogni terapeuta ha visto diverse volte nei suoi pazienti (se non anche dentro di sé) questo utilizzo surrettizio della sessualità. Certo è un ‘gioco’ delicato che richiede fiducia nelle proprie capacità e gestione del pericolo relazionale di essere fraintesi o strumentalizzati, pericolo che richiama il respirare sott’acqua (come nell’episodio narrato da taxista): fare qualcosa che ci viene naturale in un ambiente innaturale per quell’atto. Ma i due sono esperti nell’interazione ludica: si sfidano, con tanto di punteggio, a racconti sempre più intimi (e qui il lettore non deve intendere sempre più ‘pruriginosi’, ma profondamente umani) che culmina con la confessione della ragazza del recente aborto spontaneo del bambino frutto della relazione con l’uomo al telefono. Il finale del film è una logica conseguenza di ciò che è successo nel tragitto: lui le tende la mano per salutarla, gesto che forse voleva essere riparatorio per l’equivalente gesto paterno avvenuto (o forse no), ma lei lo accarezza dolcemente sul viso, forse a significare che ormai ha sganciato un gesto così intimo e sensuale dalla modalità propria del registro sessuale per renderlo di puro contatto intimo.
Oppure, altra interpretazione possibile, come a esplicitare che il contatto umano profondo per lei ormai avviene attraverso l’esercizio e l’accettazione di una sessualità consapevole. La connessione tra umani, quando è autentica è anche trasformativa, aumenta i gradi di libertà e ripara nel modo della tecnica giapponese del kinsugi, gettando una maggiore luce preziosa di consapevolezza sui propri bisogni profondi e sulle logiche che sottendono la loro gratificazione. Insomma: connettersi è possibile a partire anche dalla propria storia traumatica se non si ha “paura di guardarsi negli occhi”, in quelli degli altri o nei propri utilizzando, magari, uno specchietto retrovisore.
04/11/2025
Massimo De Franceschi, psicologo psicoterapeuta, Consultorio Familiare La Casa di Varese, massimodefranceschi@lacasadivarese.org
Antonio Onofri, medico psichiatra, Centro Clinico de Sanctis, Roma.

Commenti recenti