“Feccia” di Paul Williams (recensione di ANTONIO ONOFRI)

Mimesis/Clinica del trauma e della dissociazione
Milano 2017, Euro 13.00

Esiste tutto un filone, ormai, che potremmo chiamare di psico-narrativa. Romanzi , racconti, che affrontano con competenza temi di interesse psicologico o psichiatrico. Tra i vari, ricordo senz’altro i bei romanzi di Irvin Yalom (Le lacrime di Nietzsche, La cura Schopenauer, Il problema Spinoza, editi da Neri Pozza), che si muovono tra psicoterapia e filosofia, o i tanti gialli – anche recenti, come La sindrome del sosia, di Francesco Cro, pubblicato da Leone Editore – che mettono al centro delle proprie trame storie squisitamente psichiatriche.
Ma forse nessuno, finora, aveva mostrato in un’opera narrativa come pensa, che cosa sente e prova, come si comporta, un adolescente traumatizzato e dissociato. Ci è riuscito con vera maestrìa uno psicoanalista britannico, Paul Williams, con questo Feccia (proseguimento del suo – altrettanto bello – Il Quinto principio, dedicato all’infanzia, e secondo libro di una ideale trilogia di cui aspettiamo il terzo volume per quanto riguarda la dissociazione nell’età adulta), muovendosi tra la narrazione autobiografica e le proprie competenze professionali.
Il protagonista è un adolescente che vive in un contesto altamente traumatizzante, figlio di due genitori seriamente disturbati e sadici. Il lettore può trovare – attraverso il dialogo interno dello scrittore che dà voce al romanzo – tutte quelle conoscenze teoriche che sono ormai considerate la base concettuale della dissociazione: un sé frammentato, per usare il linguaggio di Onno van der Haart e di Janine Fisher, tra una “parte della vita quotidiana” che cerca apparentemente di adattarsi e conseguire obiettivi essenziali della vita normale, e le “parti emotive”, le “strategie di sopravvivenza” che diventano automatiche e prendono il sopravvento.

Lo stare sempre in guardia, per esempio: “…Confezione sorpresa una logica particolare un sesto senso straordinario perché lui abbassava la guardia più sereno confortato altrove lontano da lei dal cubo grigio si innescava l’esplosione più imprevedibile una scarica di violenza tutto sottosopra ogni esperienza inutile mai avvenuta. S’illudeva di prevederlo si credeva pronto macché traumatizzato sperava nella fine invocava la fine già dall’età di tre quattro anni si dissocia dalla violenza di lei la rifiutava lodevole senza dubbio l’aver sentito inconsapevolmente l’ingiustizia di quella furia tale il distacco che coi bulli ogni pestaggio non ha precedenti accadeva per la prima volta mai successo già successo…”.
Ma anche il congelamento e l’obnubilamento, per usare i concetti della teoria polivagale di Porges: “…Più leggeva meno capiva le parole le frasi niente storia niente scrittura niente da nessuna parte ronzio in testa pulsazione crescente nell’orecchio Annibale esercito animali viaggio corpi-persone acufene niente…”

Oppure l’oscillazione tra sottomissione, collera esplosiva e bisogno di protezione: “…Vergognarsi isolarsi significava che per lui invece non era così che era colpa sua si ritraeva da se stesso non si fidava di nessuno terrorizzato dalle aggressioni di chi loro sue? Sue. Figurati! Vergogna a profusione macerie venute alla luce anni dopo rompendo la mascella dell’uomo chiamato padre basta con la violenza se la prese con se stesso si vergognò di essersi rivoltato contro di lui eppure ribellarsi avrebbe dovuto dargli coraggio, non ti pare? Nossignore. Perché no? Farsi umiliare per restare attaccato all’uomo chiamato padre? A una ‘famiglia’? A un branco di ratti? Mentire? Dire la verità? Le due cose insieme?…”. “…Il terrore colpisce quando e dove gli pare la vergogna colpisce con una derisione a cui credi. Niente pensieri da riordinare la pressa sobbalza vibra cede il fantasma rallenta sobbalza vuoto profumo di niente nessuna emozione distaccato stai fermo guarda coltre di apatia così spessa da fossilizzare ogni cosa viva…”
E infine, la colpevolizzazione di sè o degli altri: “…Unico stratagemma a cui ricorrere in caso di emergenza attribuire la colpa di quello che non era andato per il verso giusto nella vita di sua madre cioè ogni cosa…”

Il linguaggio usato in tutto il testo è proprio questo: senza punteggiature e interpunzioni, eppure scorrevolissimo e in grado di rapire il lettore fino all’ultima riga, quasi a sottolineare come il pensiero “…forse è una fiaba su cose impensabili trasformate in narrazione quasi che una narrazione sia possibile una narrazione su cose impensabili che non solo non si possono scrivere ma nemmeno pensare essendo essa stessa una riflessione a posteriori?…”
Del resto, la situazione del trauma cronico e prolungato, della minaccia soverchiante senza possibili vie di fuga, sembra rendere impossibile ogni mentalizzazione: “…vederli per quello che sono ecco la cosa che un bambino non può fare senza cadere più in basso del fondo…”.
Ecco allora farsi avanti una “…concezione monolitica della natura umana dominata dall’egoismo tutti a sfruttarti a umiliarti…”.

Eppure, fortuitamente e fortunatamente, qualcosa accadrà, nella vita di questo ragazzo, qualcosa che renderà di nuovo possibile una incipiente forma di fiducia e poi di riscatto: l’incontro con un adulto gentile, attento e rispettoso, un insegnante. E con lui, l’inizio di una nuova vita e di una revisione dei propri schemi interpersonali. Che porterà – spero potremo vederlo presto nel terzo volume della trilogia – lo scrittore ragazzo a diventare lo psicoanalista Paul Williams.
Insomma, un testo che non può mancare nella biblioteca di chi si occupa di psicotraumatologia. La casa editrice è Mimesis. La collana “Clinica del trauma e della dissociazione” è diretta da Giovanni Tagliavini.

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